Una leggenda d’Aspromonte: Atì, la contessina di Potamia...
di Beniamina Callipari
Sulla sponda dello Ionio verso l'Aspromonte, sulle cime che scendono frastagliate e ventose verso Capo Spartivento, fra i boschi e le creste dei monti, sopra la vallata della fiumara Bonamico, si leva uno sperone roccioso coronato dalle rovine di un castello: è il castello di Atì.
Il luogo è selvaggio e inospitale, anche se pieno di suggestioni, la roccia sprofonda a picco fino al greto del torrente e i ruderi del castello quasi si confondono con la vegetazione spontanea. Questo castello ha una storia, una storia che ha dato adito ad una leggenda che dice di un'immagine di donna velata che pare sporgersi alcune sere guardando verso il crinale dei monti.
Vi era un tempo la città di Potamia, dove viveva un nobile signore, un conte altero e insolente, tanto che per i suoi modi ostili e villani si era attirato l'odio di tutti. La sua continua alterigia gli procurava forti contrasti anche con i suoi pari e spesso osava sfidare apertamente in duello coloro che gli recavano anche lievi offese.
Una volta un nobile suo pari ebbe a scontrarsi con lui per una questione e il conte, adirato, lo uccise; dopo l'assassinio lo assalì il terrore della vendetta dei parenti della vittima e decise, quindi, di rifugiarsi in quel castello solitario in compagnia solo della sua figliola e di un paggio. La figlia del conte era molto bella e, diversamente dal padre, mite e dolce di carattere; il paggio era poeta e menestrello e rallegrava la prigionia della fanciulla raccontando antiche storie e suonando il suo liuto.
Il castello, una volta alzato il ponte levatoio, era imprendibile, protetto com'era dai profondi burroni e dalle rocce e neppure le più potenti macchine d'assedio potevano far nulla contro quelle torri sfidate solo dai venti. Nella torre maggiore il conte aveva costruito un mulino a vento e in una cisterna aveva raccolto l'acqua piovana cosicché, anche se isolati, non mancasse mai pane fresco. Sicuro della sua fortezza, il conte leggeva le antiche canzoni cavalleresche che parlavano di eroi, di maghi e di incantesimi e nella solitudine ascoltava il rumore degli alberi dei boschi e il fragore dei temporali.
Anche la bella Atì leggeva, o ricamava, o seguiva con gli occhi il volo degli uccelli dai monti fino al mare e, quando la malinconia la raggiungeva chiamava il paggio e lo invitava a cantare le sue canzoni. Fu così, fra la solitudine e la poesia di quei canti, che la ragazza e il paggio si innamorarono, ma ella per pudore non lo fece capire ed egli, per rispetto, fece altrettanto. I nemici avevano ovunque delle spie che, ascoltando il suono del liuto e vedendo i lumi accesi fino a tarda notte, capirono quello che stava accadendo fra i due giovani; decisero quindi di inviare un messaggio al paggio in cui era scritto che se egli li avesse aiutati a conquistare il castello, abbassando il ponte levatoio, loro lo avrebbero ricompensato consentendogli di sposare la contessina.
Il giovane paggio aveva sentimenti nobili e non si prestò al tradimento, ma ogni giorno era più angosciato e più innamorato che mai ed ogni notte il suo cuore era tormentato da mille dubbi. Un giorno che la bella Atì era più dolce che mai e l'arcigno conte più sgradevole del solito, il paggio decise che avrebbe compiuto il tradimento e si chiuse nella sua stanza scrivendo una nuova canzone, una ballata religiosa che aveva come tema il tradimento di Giuda.
Fece giungere ai nemici il messaggio che nella notte del successivo venerdì, nell'ora in cui tutti dormivano, egli avrebbe preso il liuto cantando i versi: "E disse Cristo agli Apostoli suoi, quando volete entrare sta solo a voi". Quello sarebbe stato il segno che il ponte levatoio era abbassato e la strada al castello aperta.
Venne la notte del venerdì stabilito, sui monti si abbatté una forte tempesta e il vento fischiava fra le torri, mentre il fiume ingrossato nel fondo della valle faceva rotolare grandi massi. Il conte dormiva profondamente, ma Atì vegliava pensando al suo amore, ascoltando il suono del liuto proveniente da una stanza lontana. Al segnale convenuto, con un rumore di argani, il ponte levatoio fu calato e i nemici s'impossessarono del castello. Senza rispettare il patto catturarono il giovane paggio legandolo mani e piedi e presero il conte nel sonno.
Andarono dunque alla ricerca della fanciulla, ma trovarono il letto vuoto e il Vangelo alla pagina in cui San Matteo racconta il tradimento di Giuda. Cercarono ancora la contessina, nelle camere, nei sotterranei, ma non trovarono alcuna traccia. Il conte e il paggio legati insieme furono messi in una botte e rotolati giù dal dirupo.
Di Atì non si seppe più nulla e il suo corpo non fu mai rinvenuto. Solo il suo spirito è ancora fra quei monti e fra quei torrioni ed i pastori nelle notti di luna dicono di vedere le belle sembianze di una donna avvolta da un velo che guarda lontano e ascolta. Dal fondo della valle, invece, salgono le voci dei fantasmi del conte e del paggio: l'uno altero e concitato giura vendetta, l'altro piange il suo tradimento.