Un prete: un romanzo di Franco Nirta

14.05.2021

di Elena Murdaca

Ispirato a vicende realmente accadute, "Un prete", dello scrittore e avvocato di origini sanluchesi Franco Nirta, edito da Rubettino, disvela uno spaccato dell'Italia meridionale della prima metà del XX secolo, fra le due guerre mondiali e i vari fenomeni storico-sociali, dal fascismo al comunismo all'emigrazione di massa, e può essere considerato a tutti gli effetti un romanzo realista. 140 pagine dal contenuto poliedrico, a cui sono applicabili diverse chiavi di lettura simultaneamente e che offre numerosi spunti di riflessione.

Don Benigno, parroco di un paesino montano imprecisato della Calabria - come si intuisce dai riferimenti dialettali in assenza di coordinate geografiche meglio precisate - vive il suo ministero spirituale di sacerdote con un approccio più affine a quello di Don Abbondio che di Fra' Cristoforo: un impiegato con l'abito talare che si è adattato, tutto sommato di buon grado, a scelte non sue con l'unico fine di preservare il feudo che si tramanda di generazione in generazione fra i maschi improduttivi della sua famiglia.

Caro cognato, quando mi hanno chiuso in seminario, credete che abbiano chiesto il mio parere?No, perché era nella tradizione di famiglia che dovessi fare il parroco qui. Questa parrocchia da più di un secolo è passata da zio a nipote, non ci avete fatto caso? Prima di me c'era mio zio, fratello di mia madre, a sua volta nipote del predecessore, anche lui fratello di sua madre e cosi chi c'era prima di lui. Ora tocca a vostro figlio prepararsi per quando dovrò lasciare, così si sistemerà e potrà provvedere a qualcuna delle sue sorelle che non trovasse marito. Insomma, il posto di lavoro ce l'ha e io glielo sto tenendo al caldo, volete che ne goda qualcun'altro?

Impossibile non andare col pensiero all'introduzione manzoniana del curato dei Promessi Sposi:

Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. (I Promessi Sposi).

Il racconto, tutto in prima persona a parte i dialoghi, presenta il flusso dei pensieri e dei ricordi da un punto di osservazione interno, quello del prete, che racconta e si racconta e a tratti si confessa. La scelta del nome, "Don Benigno", non è priva di ironia, dal momento che contrasta nettamente con la personalità arida ed egoista di un parroco il cui unico merito sembra essere l'onestà intellettuale che lo porta ad un'autodisamina spietata priva di qualsivoglia indulgenza, in primis verso sé stesso:

Non mi affannai a fare propaganda. Capivo l'importanza della posta in gioco, ma sapevo che, avendo fatto sempre e solo gli affari miei, non avevo presa sulla massa [...]. Ero esattore, talvolta esoso, di fide, canoni di affitto, prestazioni coloniche e non avevo donato nulla o rimesso alcun debito perché la gente potesse essermi grata.

Siamo esattamente agli antipodi del focoso e agguerrito Don Camillo.

La lucidità della narrazione si rispecchia in una prosa magistrale dalla scrittura chiara, pulita ed equilibrata, senza mai una parola di troppo, con uno stile sobrio, asciutto e senza fronzoli di chi é avvezzo ad attenersi ai fatti.

Il celibato dei preti e la condizione femminile nella relazione adulterina fra Don Benigno e Benedetta - altro "nom parlant" inverso, ché Benedetta è il prototipo dell"adultera"- si fondono divenendo due facce della stessa medaglia, rappresentando l'uno la scelta obbligata dell'altro.

Don Benigno, ma lei crede che vengano da noi perché siamo belli, affascinanti e virili? No, mi creda, potrebbero facilmente trovare di meglio. È che ci sanno digiuni di sesso e quindi più propensi a cedere alle tentazioni. Noi non abbiamo possibilità di scegliere, prendiamo chi ci si offere e chi ci si offre non lo fa per niente. Sanno che qualche lira in tasca non ci manca, non abbiamo famiglia e quindi qualche cosa per loro c'é sempre. Non é che dopo essercene serviti le possiamo congedare a mani vuote. E poi bisogna pensare anche al dopo, perché la cosa va così: noi dobbiamo essere discreti e loro più di noi, perché noi ce la caviamo al più con un trasferimento in un'altra parrocchia, ma loro ci rimettono la reputazione. Se sono sposate, il marito le pianta; se sono nubili, la cattiva fama le condanna a restare zitelle. In entrambi i casi tocca a noi provvedere a loro".

A questa capacità di analisi inesorabile fa da contraltare la delicatezza con cui la questione femminile é trattata. Accanto a Benedetta, fanno capolino altre donne, tutte con lo stesso minimo comun denominatore: misere, lasciate sole - la stessa Benedetta é stata abbandonata ancora in fasce e successivamente adottata- si trovano a dibattersi fra matrimoni obbligati e violenze sessuali con epiloghi spesso tragici e ingiusti, in un ambiente generalmente misogino in cui, nella migliore delle ipotesi, la donna è un peso, un guaio a cui bisogna trovare rimedio tramite un matrimonio adeguato e, attraverso la catarsi matrimoniale, da "guaio" per i genitori viene promossa al rango di "fastidio" per il marito.

Al di là della vicenda passionale, Don Benigno, in quanto prete, assolve infine la funzione di archivio vivente del villaggio. È "il prete" nel senso istituzionale temporale del termine, uno dei fondamenti universali regolatori della vita di paese, indipendentemente dalla propria persona, accanto al sindaco, al medico e al brigadiere, custode della memoria collettiva di riti, tradizioni ed eventi che rivivono in alcune pagine. Mirabile la descrizione dell'alluvione, una delle tante che ha flagellato l'Aspromonte negli anni del dopoguerra. Dall'abbigliamento dei massari con tanto di "focaloru" (acciarino con polvere da sparo custodita nel corno di bue) - ormai estinto - agli inni religiosi in dialetto che é ancora oggi possibile udire nei paesini aspromontani, sono svariate le informazioni che conferiscono al racconto anche un carattere etnografico.

Pur arido, egoista e peccatore, Don Benigno, tuttavia, non suscita sdegno, rabbia o condanna, ma piuttosto ispira pietà per la sua miseria spirituale e la sua solitudine, che fa da contraltare alla solidità economica derivante dalla posizione sociale.

Un viaggio nel tempo, nello spazio e fra le anime, che lascia un retrogusto di amaro e nostalgia al contempo, vagamente verghiano, per una vita che, pur costellata di ingiustizie e di sofferenze, non c'é più.

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