L'immagine e il concetto: spunti filosofici nell'arte di Magritte
di Teresa Simeone
"La realtà non è mai come la si vede: la verità è soprattutto immaginazione."
René Magritte
Fino a che punto è possibile spingersi nel mettere in relazione l'immagine, propria dell'arte pittorica, con il concetto, elemento base del processo speculativo?
Partiamo da La trahison des images, Il tradimento delle immagini, più noto come Ceci n'est pas une pipe, di Renè Magritte, che rimanda a un principio fondamentale: la riproduzione di un qualsiasi oggetto non può e non deve essere identificata con l'oggetto stesso, quello reale che rappresenta. Ciò che vediamo nel quadro non è, cioè, una pipa che possa essere usata per fumare, bensì la sua rappresentazione.
Il legame tipico della pittura classica, tra immagine e realtà, viene sconfessato e la visione che il quadro ci restituisce diventa un suggerimento a pensare, uno stimolo per l'intelligenza, che vi si trova impegnata in uno sforzo non immediato. Tutto si muove nell'ordine della rappresentazione: Magritte stesso lo ribadì, dichiarando che, se avesse scritto sotto il suo quadro "questa è una pipa" avrebbe mentito. Una verità evidente, che implica, tuttavia, una pausa: bisogna fermarsi e soffermarsi. È necessario, cioè, che si osservi o con lo sguardo ingenuo di un bambino, ancora chiuso nella concretezza di un approccio sensocentrico che giudica soltanto ciò che gli rimandano occhi e tatto e che non può toccare, o con la visione della mente di un adulto che, nella maturazione delle capacità critiche, è ormai in grado di stabilire una distinzione tra piano della realtà e piano della rappresentazione.
Il pittore belga spinge, decisamente, al passaggio da una funzione imitativa della realtà all'interpretazione concettuale. Fa dell'arte una domanda sul mondo, su cui si affaccia con l'enorme e inquietante occhio de "Il falso specchio". In questo senso, le opere dell'artista belga ci interrogano, sono un continuo sprone a riflettere, sono pensieri-immagini. La vocazione filosofica, d'altronde, emerge da ogni suo quadro e dal mistero intellettuale che evoca.
Avviene anche nel quadro L'explication, che può essere letto altresì come rappresentazione visiva del principio kantiano di sintesi a priori. Cioè del fatto che la nostra intelligenza, pur iniziando dai sensi, non si limita a registrarne i dati, ma perviene a qualcosa di nuovo. Il quadro presenta su un tavolo una bottiglia, una carota e una carota-bottiglia: i primi due oggetti esistono nella realtà, il terzo non ha sussistenza fuori dal quadro. Leggendolo da sinistra verso destra, seguiamo la sintesi; da destra verso sinistra l'analisi. La carota-bottiglia è quindi un concetto visibile, una composizione risultante da un giudizio analitico che separa gli oggetti e un giudizio sintetico che li unisce. È un ibrido insospettato che, finché non è "spiegato", risulta surreale ma, capito nelle sue dinamiche, può non solo essere compreso ma addirittura realizzato. Soprattutto è un oggetto-altro, sorprendente e originale.
Al centro di molti quadri di Magritte c'è la natura: riproposta in modo "oggettivo", è, però, interpretata in modo "soggettivo", declinata, cioè, attraverso la maturità intellettuale di una mente indiscutibilmente moderna. Una natura in cui gli oggetti sono i medesimi dell'arte classica ma immersi in contesti assolutamente rivoluzionari, dove relazioni tra elementi singoli che vengono scollegati dall'adesione a una realtà canonicamente tramandata (la coppa gigantesca con una nuvola al suo interno de La corda sensibile), diventano possibili a un intelletto libero e anticonvenzionale.
La separazione tra elemento pittorico e linguaggio "destabilizza l'abitudine", sconvolge piani e costringe a nuove letture, combatte luoghi comuni, rompe legami e logiche cristallizzate. Sgretola certezze. Irrompono, così, sulla tela, interrogativi, dilemmi logici, giochi linguistici sul modello di quelli già presenti nel mondo antico: pensiamo al paradosso che Diogene Laerzio ci riporta di Epimenide (o argomento del Mentitore) e che rappresenta un'autentica antinomia della ragione trasferito all'interno di una cornice.
L'arte di Magritte è la raffigurazione di un paradosso. È la contraddizione ostentata: giorno e notte ne L'impero delle luci non si confondono ma coesistono nella stessa scena. L'interesse per la filosofia, d'altronde, attraversa tutta la sua formazione, da De Chirico a Hegel, a Heidegger, fino a Foucault che contraccambierà l'interesse dedicandogli nel 1973, dopo la sua morte, un saggio dal titolo appunto Ceci n'est pas un pipe.
Ritornando al quadro, nel cui sfondo monocolore è delineata la pipa, ci rendiamo conto che la frase non dà semplicemente un'informazione neutra ma conferisce senso al tutto. A intrigare, nella commistione di figura e testo scritto, è l'invito alla riflessione, che coinvolge la complessità del linguaggio. Perché Magritte ha scelto quel soggetto? Che cos'ha quella pipa per cui un artista decide di raffigurarla? Niente di particolare. E infatti non rappresenterebbe nulla se la frase, che diventa un codice interpretativo per il concetto che vuole veicolare, non specificasse l'intento dell'autore che è quello non di disegnare una pipa ma di indurre a riflettere sul fatto che l'arte è rappresentazione. Dunque finzione? Tutte le risposte sono valide e possibili: è questo lo scopo. Far pensare, creare un dialogo silenzioso tra il mondo dell'artista e quello del fruitore, una seduzione, attraverso un'immagine, della mente. Una seduzione senza circuizione o inganno. Che ha la suggestione dell'incanto, bonificato della tossicità del maleficio.
Il ricorso stesso alle parole è lo straordinario modo di far irrompere un elemento apparentemente estraneo, la frase - segni che significano pensieri - in un campo in cui, in realtà, il confine tra logico e alogico, iconico e aniconico è labile e i recinti superati. In cui non c'è distanza tra intelligenza e senso e in cui l'emisfero sinistro, analitico, logico e razionale, comunica, dialogando, con quello non verbale, globale, artistico e creativo destro.
Oggi sappiamo che in ogni attività umana sono coinvolte aree di entrambi gli emisferi e che la struttura reticolare del cervello, attraverso connessioni inevitabili, rappresenta la modalità principale del suo funzionamento. È la vittoria dell'integralità dell'approccio sulla divisione percettiva, dell'unificazione nell'abitare il mondo sulle compartimentazioni artificiose e meccaniche del semplice attraversarlo. Che ci si lasci andare al gesto ispirato delle mani che si muovono su una tela o si operi con la consapevolezza ordinata con cui sulle pagine di un quaderno si fissano concetti è ininfluente. Lo iato tra un cielo stellato sopra di noi che incombe con le sue regole necessarie e determinate e una legge morale in noi che postula libertà e immortalità dell'anima si compone nella sfera del sentimento e affidando l'unione alla bellezza. Il pensiero vede, l'occhio riflette, l'immagine rimanda al concetto. D'altronde, è un filosofo, Aristotele, a scrivere che l'anima non pensa mai senza immagini, mentre un artista, Michelangelo, ad affermare che Si dipinge col cerviello et non con le mani.
L'immagine interviene prepotentemente nella costruzione della conoscenza che, a sua volta produce concetti, rappresentabili di nuovo in immagini. Dall'insieme di tutti i cani "esperiti", l'uomo si è formato un concetto di cane, spogliato dei caratteri dei diversi tipi di alani, collie, cocker e componibile coi soli tratti comuni. L'immagine mentale di ciò che è cane mi servirà per valutare se gli altri animali con cui verrò a contatto sono riducibili alla specie di cane.
Il pensiero riflette, produce immagini e attraverso queste concetti.
Jean-Jacques Wunenburger, in Filosofia delle immagini, sostiene che, nonostante l'inattendibilità di ogni linea divisoria è possibile distinguere due tipi di categorie: "le immagini immediatamente portatrici di sapere, quelle che lasciano che l'informazione incontri senza ostacoli la superficie delle figure (forme spaziali e immagini verbali); e le immagini mediatamente ricche di pensiero, quelle che necessitano di uno svolgimento interpretativo per esprimere tutta la loro profondità poetica". Sono queste seconde, portatrici di potere noetico, a interrogare con maggiore vigore.
A volte l'immagine è in grado di concentrare in sé tutta una visione del mondo. Lo spiega molto chiaramente Michel Onfray ne "Il coccodrillo di Aristotele" a proposito dell'analogon. Con analogon si intende dunque qui l'oggetto che serve a riassumere il tutto. Si tratta di un termine utile a indicare la metonimia pittorica. Ed è come dire che il centro dell'opera, il suo senso, il suo epicentro, stanno nel dettaglio e continua: Qualche esempio: la verdura del dipinto di Pitagora realizzato da Rubens, Aristotele cavalcato da Fillide, la brocca di Socrate e Santippe, ma anche, giusto per abbozzare una storia della filosofia antica in pittura, la lampada a olio di Anassagora, la risata di Democrito, le lacrime di Eraclito, la coppa sempre di Socrate, la lanterna di Diogene, o il suo barile, o la sua scodella, la caverna di Platone, la fascina di Protagora, il coccodrillo di Aristotele, la bacinella di Seneca, il pane di Marco Aurelio, la conchiglia di Agostino. E questo solo per restare nei limiti della filosofia antica."
La pittura può fare anche questo: riassumere un sistema filosofico in un'idea, in un analogon, in un'icona, in un oggetto. Quando non riesca a rappresentare, come ha fatto Raffaello nella Scuola di Atene, un'intera età.
E dunque c'è un'arte che si nutre di contenuti filosofici e una filosofia che non vuole fare a meno del potere immaginifico dell'arte, che non vuole rinunciare al calore della bellezza, costretta com'è abitualmente nel recinto del rigore logico.
Tutta l'arte del Novecento, ha detto Umberto Curi, sconfina nella filosofia. In questo senso, l'arte astratta rappresenta una tappa fondamentale e imprescindibile dell'arte filosofica o della filosofia pittorica, in un'ibridazione rivoluzionaria che nella sperimentazione di nuovi linguaggi conserva, però, il legame tra ciò che si vuole rappresentare e il modo in cui lo si fa. Come ha scritto Arshile Gorky: L'arte astratta permette all'uomo di vedere con la mente ciò che non può vedere fisicamente con gli occhi. E allora, se la domanda è: Si può parlare di un'arte "filosofica" o di una filosofia visiva?, la risposta possiamo trovarla soltanto nell'audacia di chi ha lasciato l'isola della certezza teoretica di kantiana memoria e non ha avuto paura ad affrontare le acque pericolose, misteriose e cariche di promesse dell'oceano della sua immaginazione né esitazione a rendere manifesto l'astratto del proprio mondo interiore, intellettuale e sentimentale insieme.