Le serenate o notturni canti d’amore, tra le valli dell'Aspromonte

08.02.2021

di Beniamina Callipari

Fonte: Riviera online
Fonte: Riviera online

Tra le popolazioni vallive del Bonamico e del Careri, fiumare che scorrono nell'entroterra aspromontano calabrese, in provincia di Reggio Calabria, merita una menzione particolare un'antica tradizione tipica dei rituali di corteggiamento, ovvero le serenate o notturni canti d'amore, patrimonio sia delle classi subalterne che di quelle agiate.

Gruppi di suonatori e cantori, accompagnavano l'innamorato sotto casa della fanciulla amata, avvalendosi del suono di vari strumenti musicali, quali ad esempio le ciaramelle e il tamburino a mano ed in periodi più recenti la chitarra, il mandolino, e la fisarmonica.

Le serenate, nella zona del Careri, dove sorgevano e sorgono attualmente i paesi di Natile e Careri, durarono fino al 1950, accompagnate soprattutto con le ciaramelle, strumento musicale popolare diffuso in tutto il centro-sud Italia, ragion per cui, i canti all'innamorata presero il nome di "ciaramellate, dallo strumento adottato.

Alla foce del Bonamico, fiumara che scorre tra i paesi di San Luca e Bovalino, sul versante jonico reggino, particolare rilievo rivestì in questo ambito Bovalino Superiore, dove addirittura esistevano menestrelli d'amore per professione. Tra Ottocento e Novecento, i più famosi furono "U mancinu", il primo a svolgere il mestiere oltre il proprio paese, portando le serenate anche nei centri limitrofi, su incarico dei giovani del luogo, e un certo "Pedullà", menestrello solo in paese. A partire dalla seconda metà dell'Ottocento, le manifestazioni d'amore iniziarono ad evolversi, portando una maggiore libertà di espressione dei propri sentimenti, prima d'allora repressi.

La serenata poteva avvenire in diverse modalità: direttamente, dall'innamorato all'amata, per tramite (il menestrello con i suonatori), o spesso anche per procura (per conto di emigrati che avevano lasciato in paese la futura sposa). I giovani dei ceti medio-alti, che frequentavano illustri collegi e università, iniziarono ad adottare dei testi in lingua italiana, sostituendoli a quelli in dialetto. Molto presto, mutò anche la tipologia degli strumenti, da quelli a fiato e a percussione, tipici della tradizione, si passò all'uso della chitarra, del mandolino, del banjo e della fisarmonica. Nel caso in cui l'innamorato fosse dotato di una buona voce, avvalendosi dell'accompagnamento musicale dei propri amici, cantava su testi consolidati della tradizione.

In mancanza di doti canore accettabili, l'innamorato ricorreva ai mestieranti, piccoli gruppi di artigiani che formavano dei complessi, solo per diletto, ed accettavano come compenso semplicemente un buon bicchiere di vino offerto loro. In questo caso il giovane promotore della serenata si limitava a declamare ad alta voce i seguenti versi:

"La me canzuna è ditta nta sta via

e ve la offru a vui bellezza mia!"

(La mia canzone è cantata in questa via

e la offro a voi, bellezza mia)


Mentre il complesso continuava, cimentandosi in brani tradizionali classici, quali ad esempio:

"Passu e spassu sutta a sti pinnati

pe na figghiòla schetta chi ndavìti,

volia sapìri si la maritati

o puramenti schetta la dassati.

Si vui la tenìti nta li vitri,

eu la tegnu nta li vitrati".

(Passo e ripasso in queste viuzze

per una ragazza non sposata che voi avete,

vorrei sapere se aveste intenzione di farla sposare

o di lasciarla non sposata,

se voi la tenete in vetrina,

io la terrò in una teca)


I testi più commoventi erano, senza dubbio, quelli relativi alle serenate dei giovani prossimi all'emigrazione e dunque costretti ad allontanarsi dalla donna amata. Erano testi molto toccanti, intrisi di un'infinita malinconia. In questi casi, se il giovane era stato ufficiosamente accettato come fidanzato, col benestare dei congiunti, dopo l'esecuzione della serenata i familiari della fanciulla lo facevano entrare in casa, offrendo vino e dolci, quasi come in una festa d'addio. Scene simili avvennero anche tra le due guerre mondiali, al momento di salutare i giovani, pronti a partire per il fronte. Di questa usanza, tipica soprattutto dei paesi interni, ci sono pervenuti pochissimi testi, quali ad esempio il seguente:

"Ieu partu e mi ndi vaiu fora regnu,

a tia ti dassu stu cori pe pignu,

e staiu n'annu e doppu mi ndi vegnu

u cercu lu cori chi dassai pe pignu.

E si pe sutta di sti brazza vegnu,

mi t'attaccu comu la dera[1] nta lu lignu"!

(io parto e me ne vado all'estero,

ti lascio il mio cuore come pegno,

rimarrò un anno e poi tornerò

a cercare il cuore lasciato in pegno.

E se tra le tue braccia tornerò,

mi ci attaccherò come la teda al pino)


Altre volte, i canti notturni si trasformavano in lamenti di innamorati delusi o in vere e proprie invettive di innamorati respinti; questi ultimi canti erano detti "Canzuni di sdegnu":

"Quant'avi ca non passu di sta strata!

Dassai li rosi e li vitti cogghiuti,

dassai li donni schetti e li vitti maritati,

senza figghioli e li rrivai vestiti"!

(Da quanto tempo non passavo da questa strada,

ho lasciato le rose e le ho ritrovate raccolte,

ho lasciato le donne nubili e le ho ritrovate sposate,

senza figli e le ho ritrovate madri)


Al momento della serenata, la fanciulla prescelta si limitava ad ascoltare, spiando dalle finestre socchiuse. La risposta non avveniva mai direttamente, ma tramite delle amiche, degli ambasciatori o semplicemente attraverso gli sguardi furtivi ed eloquenti dei due innamorati scambiati nei rarissimi casi d'incontro; talvolta era la ragazza a rispondere, tramite dei canti tradizionali, durante il lavoro nei campi o mentre svolgeva le faccende domestiche. La risposta non sempre era positiva, ed allora avevano luogo le cosiddette canzoni di rifiuto:

"O faccia di gulèu, cuccu di notti

venisti a mia mu mi fai sonetti!

Ma si ti senti Achilli, o gambi storti,

è megghiu i na timpa u va i ti jetti!

La mé canzuna a dicu nta la luna,

cìnniri carda e focu mu t'alluma"!

(Oh faccia da galeotto, gufo notturno,

sei venuto da me a dedicarmi sonetti,

ma se pensi di essere Achille[2], o gambe storte,

è meglio che tu ti vada a buttare da un burrone!

La mia canzone la canto alla luna,

che la cenere calda e il fuoco ti facciano bruciare!)


Tali rituali sono stati perpetuati fino ai primi anni '50 e oggi di essi non rimane che un tenerissimo ricordo e brevi testimonianze di una realtà semplice e pura, ma anche chiusa e costellata di tabù inviolabili, nella quale l'estrinsecazione dei propri sentimenti poteva avvenire solo attraverso questi singolari e romantici mezzi, totalmente estranei alla nostra quotidianità e tipici di un mondo che fu, ma che abbiamo il dovere di ricordare perché ciò che siamo e che saremo non può prescindere da ciò che siamo stati.

[1] In italiano "teda", fiaccola, costituita da un ramo resinoso, che gli antichi usavano durante i riti sacri e nelle cerimonie nuziali, per accompagnare la sposa dalla casa paterna a quella dello sposo; 

[2] Achille: chiaro riferimento all'eroe protagonista dell'Iliade

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