La parola che ci manca: tra adattamento, colpa e il bisogno di narrare

17.07.2025

Di Yuleisy Cruz Lezcano 

Abbiamo psicologizzato il disagio per non vederne le radici: così curiamo l'individuo, ma lasciamo intatto il sistema sociale che lo ammala. 

Sempre più spesso ci mancano le parole. Le parole per dire e per dirci, per raccontarci e per comprendere noi stessi e il mondo che ci circonda. In un'epoca in cui le tecnologie digitali, l'intelligenza artificiale e i racconti preconfezionati di successo e felicità sembrano dettare i tempi e i modi del pensiero, la nostra capacità di immaginare alternative, di pensare al di là delle forme a cui siamo abituati, si riduce drasticamente.
Ci troviamo imprigionati in una "caverna globale" — come direbbe Platone, se oggi osservasse il nostro mondo — che ci opprime sul piano intellettuale ed emotivo. Una caverna che ci lascia con un'unica convinzione: di fronte alle ingiustizie sociali e alle crescenti disuguaglianze economiche, l'unica opzione che abbiamo è quella di esercitare il potere individuale, adattandoci a qualunque costo.

Questo imperativo ci impone di cogliere immediatamente ogni opportunità che il sistema produttivo mette a disposizione, di competere e trionfare in una giungla che non ammette esitazioni. Se non riusciamo, non è il sistema a fallire, ma noi stessi: diventiamo responsabili, colpevoli di un'inadeguatezza che assume i tratti di un rifiuto sociale.
La colpa di non essere "all'altezza" delle aspettative ci spinge dentro una spirale di solitudine, isolamento, tristezza e inoperosità.

L'incapacità di narrarci, di costruire e condividere una storia di senso, ci priva di strumenti fondamentali per il dialogo sociale, per la solidarietà e per l'esercizio di un'empatia attiva. Così, ciascuno di noi si rifugia in una bolla incomunicabile, un'isola di silenzio che sembra inevitabile.
Questa situazione è stata definita da filosofi come Byung-Chul Han un totalitarismo adattativo: un sistema che sequestra la nostra intelligenza e la incanala esclusivamente al servizio degli imperativi economici.
Non c'è più spazio per la riflessione critica, per la disobbedienza intellettuale, per la creatività che si affranca dalle logiche di mercato. In questo contesto, la parola perde la sua funzione originaria di costruzione di senso collettivo e diventa uno strumento frammentario, spesso usato per ripetere slogan vuoti o narrazioni prefabbricate.

Ma esiste una via di uscita?
Recuperare la parola significa, innanzitutto, riappropriarsi di una narrazione dinamica, capace di cambiare nel tempo, di reinterpretare passato e presente alla luce delle nuove circostanze.
Questa narrazione non è rigida o dogmatica, ma flessibile, aperta, talvolta inconseguente, proprio perché vivere implica evolversi e trasformarsi. Solo così possiamo ritrovare il senso del collettivo, l'orizzonte dell'azione politica, la forza dell'empatia.

La stanchezza che sentiamo non è sempre un semplice sintomo patologico. Essa nasce da uno stress cronico, da un'agitazione costante, da una vita vissuta nella fretta e senza motivazione. Il risultato è spesso una mancanza di affetto verso il mondo, un disinteresse che si traduce in una scarsa attenzione politica.
Da qui nasce quella che gli psicologi chiamano indecisione appresa: la sensazione paralizzante che qualunque azione intraprendiamo, nulla cambierà.
Un senso di impotenza che conduce a una passività crescente, sia sul piano personale che politico, e a un progressivo allontanamento dalla vita comune e dalla comunità. Un fenomeno particolarmente diffuso tra i giovani, molti dei quali si distaccano dalla politica tradizionale.
Questa disaffezione rischia di alimentare una pericolosa spirale, dove si vota per chi promette risposte semplici e quasi magiche o, in alternativa, si sceglie l'indifferenza.

La sfida che abbiamo davanti è immensa, ma non impossibile. Serve un impegno collettivo per ricostruire la parola, per rinnovare il dialogo sociale e politico, per coltivare un'empatia che sia vera e attiva. Serve un progetto culturale che ponga al centro la cura di noi stessi e degli altri, l'attenzione ai linguaggi e la capacità di immaginare futuri possibili, senza restare imprigionati nelle strettoie di una narrazione unica e immutabile.

In un'epoca in cui la tecnologia può tanto, ma spesso ci disarma, riscoprire la forza della parola e della narrazione è forse l'unico modo per riappropriarci della nostra intelligenza, della nostra umanità e della possibilità di un mondo più giusto e solidale.

La stanchezza di cui parliamo oggi non è semplicemente un sintomo patologico o individuale, né una questione di deficit personali o psicologici. È, prima di tutto, una stanchezza morale.
Una stanchezza che nasce dall'essere costantemente schiacciati da un sistema politico ed economico che non pone il cittadino al centro della vita collettiva, ma che anzi sembra spesso passarci sopra, calpestando la dignità umana.
In una società dove il profitto e il beneficio economico diventano i veri imperativi — più importanti del benessere sociale, più forti delle esigenze di giustizia — la politica si riduce a un'arena in cui prevalgono gli interessi delle élite, mentre i bisogni reali della maggioranza vengono ignorati o minimizzati.
Questo si traduce nella precarietà del lavoro, nella crescita della disoccupazione, nelle condizioni sempre più difficili per chi lavora: sottopagato, senza tutele, con orari estenuanti e senza certezze.
È una realtà che produce una stanchezza profonda, radicata, che non si limita al corpo o alla mente, ma si insinua nell'anima.

Non è una stanchezza che si cura con un giorno di riposo o con una vacanza. È una fatica morale: il peso di sentirsi invisibili, marginalizzati, esclusi da un sistema che non considera più l'essere umano come fine, ma solo come mezzo per aumentare produttività e ricchezza.
Questa stanchezza si accompagna a un senso di frustrazione, di impotenza e di sfiducia verso le istituzioni, e alimenta quel distacco e quella rassegnazione che portano molte persone, specialmente i più giovani, ad allontanarsi dalla partecipazione politica e dal coinvolgimento sociale.

In questo quadro, la sfida non è solo individuale, ma collettiva: riconoscere questa fatica morale come segnale di un malessere profondo che riguarda l'intero sistema, e lavorare per una politica che ridia centralità all'essere umano, ai suoi bisogni, alle sue aspirazioni di dignità e giustizia.
Solo così potremo invertire la rotta, e trasformare la stanchezza in energia di cambiamento, in volontà di costruire una società più inclusiva, più solidale, più viva.

Fonte
Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, 2012.

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