L’ermeneutica dell’esperienza contro la chiusura algoritmica

06.08.2025

di Yuleisy Cruz Lezcano

Nel passaggio dall'antropologia della visione alla logica delle macchine, si consuma un'esclusione silenziosa ma radicale: quella dell'esperienza umana come forma complessa e stratificata di comprensione del mondo. La funzione ermeneutica dell'apparato oculare umano, intesa non solo come capacità di vedere, ma di leggere, interpretare, immergersi, entra oggi in crisi davanti alla crescente egemonia del linguaggio macchina. Dove l'occhio umano traduce il visibile in vissuto, l'intelligenza artificiale isola, codifica, riduce. Dove noi vediamo per abitare, l'algoritmo restituisce immagini ma non presenza.

Il linguaggio della macchina non conosce l'"atmosfera", quella densità ambigua e viva che avvolge luoghi e corpi nella grande letteratura. La certezza visibile dei luoghi, nella narrazione umana, non è mai un dato neutro: è sempre una condizione esistenziale. Non si tratta solo di descrivere uno spazio, ma di renderlo esperienza, orizzonte circoscritto e tuttavia profondamente evocativo, capace di contenere lo slancio dell'essere. Nei romanzi, nei racconti, negli affreschi letterari della modernità, la topografia è psicologica, affettiva, atmosferica. Ogni paesaggio è un'anima mascherata. Con l'intelligenza artificiale, invece, l'obbligazione a "impaesarsi nel già esistente" diventa regola operativa. Non si crea un mondo: si ripete, si ricombina, si simula. Il rischio è quello che José Ortega y Gasset aveva già individuato nel suo pensiero: la tecnica che si impone come finalità, e non più come mezzo. La letteratura generata, o assistita, dall'intelligenza artificiale soffre di una mancanza radicale di "attrezzatura del mondo": manca il circo viaggiante dell'immaginazione, manca la macchina magica della psicologia immaginaria. Quella che non è né psicologia scientifica né intuizione quotidiana, ma qualcosa di più profondo: un'arte espressiva della complessità interna.

Oggi, questa psicologia immaginaria è assente, rimpiazzata da sintesi superficiali, da automatismi emotivi, da personaggi che sembrano reagire piuttosto che vivere. Si fa l'autopsia dello psicologico, ma senza mai raggiungere il puro vivere. Il puro essere dei personaggi, quel loro esistere come enigmi, come presenze che sfuggono al controllo narrativo, viene spianato da una funzione imitativa, che tutto capisce e nulla rivela. Si simula la profondità, ma si resta in superficie. Il lettore, così, viene a trovarsi rinchiuso in un recinto ermetico, dove tutto sembra significare ma niente realmente accade. Non ci sono fessure, né spiragli. L'orizzonte è fisso, correlato sempre e solo a un interesse funzionale: che sia vendere, generare engagement, rispecchiare un'identità o rafforzare un valore di mercato. La letteratura, invece, aveva come sua vocazione l'opposto: aprire, forzare, disorientare.

Ortega y Gasset scriveva che "l'uomo è un essere che non ha natura, ma storia". E la letteratura, nella sua essenza più alta, ha sempre raccontato proprio questa mancanza: l'incompletezza dell'umano. Oggi, l'illusione della completezza tecnica, del contenuto perfetto, del personaggio coerente, della trama lineare, è un pericolo culturale. Toglie all'arte la sua funzione critica e alla narrazione la sua capacità di spiazzare.

La macchina scrive, ma non abita. Non ha bisogno di "impaesarsi". Non soffre, non desidera, non sogna. Il lettore, invece, ha ancora, e forse più che mai, bisogno di entrare in mondi inabitabili, in atmosfere che non siano meri dati. Ha bisogno di sentire che il testo non è una replica, ma una soglia. Un luogo in cui lo sguardo, umano e fallibile, possa ancora essere strumento di verità, di disvelamento, di trasformazione.

In un'epoca in cui l'immaginario rischia di diventare puro dato iconografico, è urgente difendere l'ermeneutica dell'occhio, e con essa la possibilità stessa di un mondo. Non quello già dato, ma quello che ancora attende di essere visto e scritto. Nel cuore della riflessione di José Ortega y Gasset, l'enunciazione del principio "Io sono io e la mia circostanza" non è un mero aforisma esistenziale, ma un atto di fondazione ontologica. L'essere umano non è mai un nucleo isolato, una monade impermeabile: è sempre situato, immerso, correlato. È un io che esiste solo in relazione al mondo che lo circonda, ai luoghi, ai tempi, agli incontri, agli accadimenti. L'umano, dunque, non è sostanza pura ma trama di rapporti.

Questo principio ha una ricaduta radicale sulla concezione della realtà e, per estensione, sulla narrazione. La realtà, infatti, non si dà in forma assoluta, ma attraverso prospettive individuali, irriducibili e coesistenti. Ogni essere umano è un punto di vista unico, eppure incompleto, che si somma ad altri punti di vista in un sistema complesso, molteplice, in continua trasformazione. La verità non è più un luogo stabile, ma una tensione tra differenze. Ciò che conta è il movimento tra gli sguardi, la dinamica tra le esperienze. La letteratura, in questo quadro, è forse il campo più fertile per accogliere e restituire questa visione: essa diventa l'arte di mettere in scena circostanze, di moltiplicare i punti di vista, di dare voce all'invisibile, al marginale, all'ambiguo. L'autore non è un dio onnisciente, ma un architetto di sguardi, un costruttore di relazioni fra mondi interiori. La narrazione non è la trascrizione di un ordine già dato, ma l'esplorazione del divenire umano.

In questo senso, la scrittura generata dall'intelligenza artificiale appare profondamente carente. Essa manca del principio "orteguiano" perché non ha circostanza: non ha tempo, corpo, luogo, bisogno, urgenza. L'algoritmo simula prospettive, ma non ne possiede alcuna. Ogni punto di vista che produce è, in fondo, disabitato. Non esiste un io e nemmeno una sua circostanza: solo pattern, combinazioni, reiterazioni. È qui che torna con forza la lezione di Goethe, quando definiva l'umano come una sintesi mobile di contraddizioni e possibilità, un essere che si forma e si deforma attraverso ciò che incontra. Goethe, come Ortega, intuiva che l'umano non è dato ma costruito, e che questa costruzione è sempre relazionale, intersoggettiva, mai definitiva. La narrazione, allora, è la forma privilegiata per inseguire l'umano in movimento, nella sua fragile verità incarnata.

Scrivere e leggere, non significa dunque solo generare o fruire contenuti, ma abitare un paesaggio esistenziale in cui l'altro ci interroga, ci modifica, ci completa. L'intelligenza artificiale, se non guidata da questa consapevolezza ermeneutica, rischia di trasformare la letteratura in un gioco di specchi ciechi, in cui nessun volto si riflette veramente.

Solo una scrittura che accoglie la circostanza, la propria e quella degli altri, può ancora parlare al nostro tempo, salvando l'umano dalla sua riduzione a funzione. In un'epoca di automatismi, la voce narrante deve tornare ad essere coscienza incarnata, sguardo situato, presenza fragile ma reale. È qui, tra l'io e la sua circostanza, che si gioca ancora la possibilità di una letteratura viva.

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