L’economia del corpo stanco

04.11.2025

di Yuleisy Cruz Lezcano

C'è una parola che attraversa i nostri tempi come una corrente sommersa: fragilità.

Il poeta Franco Arminio la invoca come materia di studio, un sapere necessario da restituire ai bambini e agli adulti, come se si trattasse di una lingua dimenticata. Elsa Fornero, economista ed ex ministra del governo Monti, la convoca invece nel lessico economico, parlando a Cesena di "fragilità finanziaria" e ammonendo: «Se non ti occupi dell'economia, sarà l'economia a occuparsi di te».

Due visioni della stessa parola. Da un lato la fragilità come spazio di umanità, lentezza, cura. Dall'altro, la fragilità come rischio, deficit, variabile da correggere. La prima riconosce la vulnerabilità come condizione universale, la seconda la traduce in grafici e percentuali.

Fornero cita Modigliani, parla di "ciclo di vita", di razionalità, risparmio, produttività. Ma dietro questa grammatica c'è una riduzione antropologica: l'essere umano come homo oeconomicus, un soggetto razionale e performante, il cui valore si misura nella capacità di lavorare, accumulare, prevedere. In questa prospettiva, la fragilità è un guasto da riparare, un'anomalia da riportare nei binari dell'efficienza. Il linguaggio dell'economia,apparentemente neutro, diventa così una pedagogia invisibile: insegna che contare vale più che raccontare, che l'essere precede solo se produce.

Il filosofo coreano Byung-Chul Han ha parlato di società della prestazione, dove ciascuno è imprenditore di sé stesso, e la libertà coincide con l'autosfruttamento. La fragilità, in un tale mondo, è un lusso improduttivo, qualcosa da occultare. Eppure, come ricorda Martha Nussbaum, "una società giusta non è quella che elimina la vulnerabilità, ma quella che la abita in modo umano".

"Non chiamatela fragilità", scrive un'insegnante in un testo che circola in rete e che fotografa con precisione chirurgica il dramma generazionale. Non è la fragilità a schiacciare i giovani, ma la mancanza di strumenti per abitare la complessità. Abbiamo educato all'obbedienza, alla protezione, al risultato, ma non al rischio, alla ferita, all'autonomia affettiva. Abbiamo costruito, con le migliori intenzioni, gabbie dorate in cui i figli imparano la dipendenza e non la libertà.

La fragilità, allora, non è un destino: è una creazione sociale. È il prodotto di un modello che ha sostituito la relazione con la prestazione, l'incontro con il profitto, la lentezza con l'urgenza.

Non siamo fragili per natura, ma perché viviamo in un ecosistema che rende fragile tutto ciò che non serve immediatamente. Come scrive il filosofo James Hillman, "il corso della tua vita è stato descritto dal futuro anteriore": nasciamo già mappati, programmati, previsti. Occorre, oggi più che mai, un cambio di paradigma. Non una "resilienza" che ci spinga a sopravvivere in un sistema disumano, ma una cultura della fragilità come risorsa comunitaria. Invece di massimizzare obiettivi, dovremmo imparare a massimizzare legami.

Una società che si misura solo in tassi di occupazione e PIL dimentica che il lavoro non è un fine, ma un mezzo per vivere meglio insieme. L'economia non dovrebbe "occuparsi di noi", come avverte la Fornero, ma servire l'umano — e l'umano, per sua natura, è vulnerabile, relazionale, imperfetto.

Ripensare alla fragilità nelle scuole e nei centri sociali che si occupano delle famiglie non è dare spazio alla poesia, ma avviare un progetto politico e pedagogico. Significa reintrodurre nella scuola — e nella società — il diritto alla lentezza, al fallimento, all'emozione, alla condivisione, insegnare che la vita non è solo produzione, ma anche cura, che la libertà non è solo competere, ma anche coabitare. Educare alla fragilità vuol dire restaurare la complessità dell'umano: accettare che ogni persona è un intreccio di limiti e possibilità, e che la vera forza nasce dal riconoscimento reciproco, non dalla competizione.

L'autrice di questo scritto vi invita "non solo transitare ma a viaggiare improntando il futuro". Credo sia necessario riscoprire la profondità del cammino umano. Una società che accoglie la fragilità è una società che sa fermarsi, ascoltare, condividere, che misura il benessere non in capitale, ma in relazioni vive.

Solo così potremo liberarci dall'illusione che "se non ci occupiamo dell'economia, l'economia si occuperà di noi".
Perché prima dell'economia viene la vita, e la vita — come la fragilità — non si massimizza: si coltiva.

Fornero insiste sul fatto che la pensione dipende dal lavoro: «Le pensioni dipendono dal lavoro — ha insistito l'economista». Questo messaggio riflette un modello in cui l'essere umano è innanzitutto un produttore continuo, un "cono­tribuente attivo" fino all'ultimo giorno. Ma che implicazioni ha questo paradigma? in quella formula apparentemente neutra si condensa una visione dell'uomo che coincide con la sua funzione economica: chi lavora vale, chi smette di produrre diventa un problema da risolvere. È un linguaggio che trasforma il cittadino in ingranaggio, che riduce la biografia a un grafico di occupazione, reddito e contributi.Eppure l'essere umano non nasce per "produrre la pensione", ma per vivere, per tessere relazioni, per generare senso e legami.

Quando l'economia diventa la lente unica con cui leggere la fragilità, la vulnerabilità si trasforma in errore di sistema. Fornero parla di "razionalità", di "massimizzazione degli obiettivi", di risparmio e di occupazione come risposte alla precarietà. Ma questa razionalità è la stessa che chiede di lavorare fino a tarda età, in nome dell'equilibrio dei conti,dimenticando che il corpo invecchia, che la mente si stanca, che la vita non si esaurisce nel lavoro. Così la fragilità, che dovrebbe essere riconosciuta come condizione comune, diventa una colpa da espiare con più fatica, con più ore, con più efficienza.Dietro la promessa di una "società più occupata" si nasconde la paura del rallentamento. Si teme il vuoto, il tempo non monetizzabile, l'intervallo in cui l'uomo non produce ma semplicemente è. Eppure è proprio in quegli spazi – la famiglia, la cura, la relazione, la contemplazione – che l'essere umano ritrova il suo centro.

Fornero parla di aumentare l'occupazione femminile, e il principio in sé è condivisibile se significa pari opportunità e autonomia. Ma se si traduce solo in più donne al lavoro per sostenere un sistema previdenziale che non regge, mentre non esistono strutture di sostegno alla maternità, all'infanzia, alla cura degli anziani, allora si produce una doppia ingiustizia: si chiede di lavorare di più in un contesto che non permette di vivere meglio.

Il suo discorso sull'istruzione segue la stessa logica. Dice che bisogna investire sulla scuola, e ha ragione. Ma quando la scuola è chiamata in causa come strumento per "preparare alla vita", il significato di vita che emerge è ancora quello del lavoro: preparare per essere produttivi, competitivi, utili al sistema. Non per essere persone, cittadini, creature capaci di cura e immaginazione. 

È la stessa riduzione antropologica che vede nell'economia la scienza guida, nel lavoro l'unico metro di valore, nella pensione l'obiettivo finale. La scuola, in questa prospettiva, non educa ma addestra. Si dimentica che dietro ogni "tasso di occupazione" ci sono corpi e affetti, persone che non riescono più a conciliare orari, famiglie, desideri. Che le relazioni si sfilacciano perché non c'è più tempo per viverle, che la fatica non è solo fisica ma esistenziale. Si continua a parlare di fragilità come rischio da gestire, non come occasione per ripensare il senso del vivere insieme...

©2021 I Love Italy News Arte e Cultura