Dalla discriminazione alla tutela reale: il percorso dei diritti contro la violenza di genere

25.11.2025

di Yuleisy Cruz Lezcano

In molte narrazioni pubbliche la violenza di genere viene presentata come un fenomeno improvviso, circoscritto all'atto estremo dell'aggressione fisica. Ma la realtà, come da tempo evidenziato dalla normativa internazionale, è ben più complessa: la violenza non nasce dal nulla, si nutre di discriminazioni quotidiane, spesso sottili, che creano il terreno fertile perché quella violenza possa radicarsi. Non è quindi la discriminazione a essere intrinsecamente violenza, ma è certamente ciò che la alimenta, la prepara, la rende possibile e socialmente tollerata.

Già nel 1948 la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ricordava che tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti, affermando il divieto assoluto di tortura e di trattamenti crudeli, inumani o degradanti, includendo nella sostanza ciò che oggi definiamo violenza di genere.

È da questo principio che prende forma, negli anni successivi, una progressiva presa di posizione della comunità internazionale. Nel 1993, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta la Dichiarazione sull'Eliminazione della Violenza contro le Donne, riconoscendo in modo esplicito che questa costituisce una grave violazione dei diritti umani e richiedendo agli Stati misure concrete di prevenzione. Ancora più centrale è la Convenzione sull'Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), adottata nel 1979: il primo trattato dedicato

esclusivamente ai diritti delle donne. La Convenzione introduce una definizione precisa di discriminazione e afferma un principio essenziale che il movimento femminista porta avanti da decenni: la discriminazione è strettamente connessa alla violenza. Non si parla infatti di episodi isolati, ma di quelle prassi sociali che limitano, sminuiscono o ostacolano le donne nella vita pubblica e privata, e che rappresentano l'humus in cui la violenza prospera. Combattere la discriminazione significa quindi agire alla radice del fenomeno.

Questa consapevolezza ha trovato un riflesso concreto nelle tutele riconosciute alle lavoratrici vittime di violenza di genere dalla normativa italiana, in attuazione sia degli obblighi internazionali sia del lavoro contrattuale condotto nel tempo dalle rappresentanze sindacali, tra cui la Funzione Pubblica CGIL. Il decreto legislativo 80/2015 e la legge 119/2013 hanno introdotto un pacchetto di diritti essenziali, che oggi rappresentano un presidio fondamentale per l'autonomia e la sicurezza di chi affronta un percorso di fuoriuscita dalla violenza. Le donne lavoratrici, pubbliche e private, inserite in programmi di protezione riconosciuti dai servizi sociali o dai centri antiviolenza hanno diritto a un congedo retribuito fino a 90 giorni, fruibile nell'arco di tre anni senza perdita di stipendio, ferie o contributi. È prevista inoltre la possibilità di richiedere ulteriori 30 giorni non retribuiti, qualora necessari, e di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

Questa scelta, pensata per sostenere la riorganizzazione della vita personale, non è irreversibile: la lavoratrice può tornare al full time quando ne ha bisogno.

La tutela riguarda anche il luogo di lavoro. La legge e i contratti collettivi prevedono la possibilità di chiedere il trasferimento in un'altra sede o amministrazione, indicata direttamente dalla lavoratrice. L'ente è tenuto a procedere entro 15 giorni qualora vi siano posti disponibili, proprio per garantire una risposta tempestiva in situazioni delicate. Sono inoltre riconosciuti l'esonero dai turni che possono generare disagio e, per chi opera nella sanità pubblica, l'esenzione dai turni notturni o particolarmente gravosi per un anno. Questi interventi, frutto di battaglie sindacali e di un continuo lavoro di negoziazione, permettono alle donne non solo di proteggersi, ma di ricostruire la propria indipendenza economica, condizione decisiva per sottrarsi alla violenza.

L'avanzamento dei diritti non elimina da solo la violenza, ma afferma con forza che la società non può limitarsi a condannare gli episodi più eclatanti: deve intervenire sulle discriminazioni che li precedono, li giustificano, li normalizzano. Le norme internazionali e nazionali ci ricordano che la violenza di genere non è un destino, ma una costruzione sociale che può essere smontata. E ogni diritto conquistato, ogni barriera contro la discriminazione, è un passo verso una società in cui nessuna donna sia costretta a scegliere tra la propria sicurezza e la propria libertà.

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