Viaggio alle radici di una cittadina aspromontana: San Luca, l'antica Potamia

17.12.2020

di Beniamina Callipari

Abbiamo sempre bisogno di ricorrere ai miti del passato per stabilire i termini del presente, le cose antiche ci ricordano che fummo sani, prosperi e civili...

Corrado Alvaro

foto di Alfonso Picone Chiodo
foto di Alfonso Picone Chiodo

"Abbiamo sempre bisogno di ricorrere ai miti del passato per stabilire i termini del presente, le cose antiche ci ricordano che fummo sani, prosperi e civili...": così si esprimeva Corrado Alvaro, illustre figlio di San Luca, facendoci capire che solo il confronto con le epoche precedenti è in grado di renderci maggiormente coscienti della nostra identità culturale e a spingerci, una volta per tutte, sulla via di un'autentica civiltà.

La storia di San Luca è legata a doppio filo a quella di Potamia, e non può essere raccontata senza prima spiegare le origini più remote del popolo abitante sul Bonamico. Le radici di molti paesi si perdono nella notte dei tempi e sono avvolte nella leggenda. Non così per San Luca, di cui si conosce tramite testimoni sicuri, la data precisa di fondazione: 18 Ottobre 1592.

Prima di spiegare le vicissitudini che hanno portato alla creazione del nuovo paese di San Luca, è necessario ripercorrere le fasi della vita dei Potamesi, antecedenti la nascita della nuova cittadina. Nella memoria del popolo si sono accostate tradizioni contrastanti. C'è chi ritiene Potamia una città ricca, tanto che vi lavoravano sette orefici, all'epoca definiti "argentieri" e chi invece tramanda fatti tipici di rozza ingenuità. È tuttora difficile stabilire quale sia la realtà dei fatti, l'unica cosa certa è che in effetti la storia di questa civiltà fu contraddistinta da una prima epoca di floridezza ed un secondo stadio di decadenza e povertà.

Come tutte le storie di Calabria, di questa terra fragile e malleabile, la cui continua soggezione a eventi naturali ha reso ancor più vulnerabile, anche Potamia si è originata da una catastrofe, un devastante terremoto che colpì l'abitato di Butramo, costringendo gli abitanti a scappare a causa della rovinosa frana della montagna.

Era probabilmente il 1349, ormai profughi, gli ex Butramesi, fuggirono dalla zona a rischio e si stabilirono ai piedi di Pietra Castello, imponente massiccio roccioso, trasformato dai bizantini in fortezza circondata da triplice cinta di mura, in pratica impenetrabile. Il nuovo villaggio prese il nome di Potamia, per la sua stretta vicinanza al fiume Bonamico; esso visse per secoli al riparo della grande fortezza, condividendo le vicissitudini feudali di tutto il territorio. E' verosimile, ma non storicamente accertato che, il padrone di tutto il vasto comprensorio montano che va dallo Ionio al Tirreno fosse lo stesso feudatario bizantino, abitatore del castello e quindi responsabile della difesa del territorio.

Con la conquista della Calabria da parte dei Normanni, Potamia fu inclusa in un vastissimo comprensorio feudale che partiva dal mar Tirreno e si estendeva fino al mare Ionio, detto Contea di Sinopoli. In età sveva essa appartenne al barone Carnelevario de Pavia, uno dei comandanti Normanni, e successivamente passò a Falcone Ruffo, il rimatore della Scuola poetica siciliana che, sposando la figlia del barone Margherita, la ebbe in dote.

I Ruffo tennero il feudo fino a quando lo stesso passò, sempre per matrimonio di Enrichetta Ruffo dei conti di Catanzaro, ad Antonio di Centelles, marchese di Crotone, al quale, accusato di fellonia e insubordinazione, fu tolto dal re aragonese e poi venduto a Tommaso Marullo.

Nella seconda metà del XV secolo, a causa dei continui sommovimenti e ribellioni dei baroni e degli immediati interventi di repressione delle rivolte, il grande feudo di cui faceva parte Potamia passò velocemente da un barone all'altro; in un documento del 1458, si legge che Re Ferrante d'Aragona abbia spogliato dello stesso feudo Tommaso Caracciolo, reo di tradimento e fellonia e lo abbia dato in gubernatione a un certo Andrea de Pol, suo gran camerario. Ormai però della gran contea, avuta in dote due secoli prima da Margherita de Pavia, era rimasta solo una parte, quella jonica, la quale comprendeva i centri di Mocta Bubalina, Bianco, Torre Bruzzano, Motta Bruzzano, Panduri, Potamia e Condajanni.

In questi territori, fin dalla prima metà del XIII secolo, esisteva un notevole allevamento di cavalli, la cosiddetta Regia Cavalleritia et Razza, il cui proprietario era il re. La maggior parte dei pascoli per le giumente reali era nell'Aspromonte, nel territorio di Potamia, e molti dei cavallari e giumentari erano potamesi. Toponimi come i stagghi (le stalle), Cavagliaru (cavallaro), a Staglia (la stalla), ancora esistenti, confermano l'utilizzo del territorio della vallata per questo fine. L'economia della terra feudale era quindi basata sull'allevamento equino del re, sulla pastorizia e sulla poca agricoltura.

Le terre di Bovalino, Potamia, e Panduri, furono acquistate verso la fine del XVI secolo, da Sigismondo Loffredo, nominato dal re, Marchese di Bovalino. Solo qualche anno dopo avvenne la svolta per Potamia; secondo una prima ipotesi essa sarebbe stata distrutta nel 1592 da un violento terremoto, che avrebbe ridotto il numero degli abitanti a soli 37 fuochi o famiglie su un'intera popolazione, miracolosamente sopravvissuti alla furia del cataclisma. A quanto risulta da altre fonti, eventi sismici in zona si ebbero, però, soltanto nel 1596 e 1599, ovvero qualche anno dopo rispetto al presunto sisma prefigurato nella precedente ipotesi. Una seconda teoria afferma la possibilità di un catastrofico evento naturale connesso con la vicina fiumara su cui sorgeva il paese, forse un'esondazione del corso d'acqua a causa di una tremenda alluvione, o ancora un'epidemia di malaria, o addirittura una secca del torrente che avrebbe provocato una crisi delle colture e quindi carestia profonda.

Quello che sappiamo con certezza è che, il 18 Ottobre 1592, i Potamesi dovettero, per ragioni di forza maggiore, trasferirsi definitivamente in un luogo più sicuro. Essi partirono quindi, portando con sé le amatissime statue dei santi protettori San Luca Evangelista e la Madonna Addolorata. Il piccolo corteo di superstiti decise di fermarsi nel luogo in cui, attualmente, sorge il vecchio agglomerato urbano, il cosiddetto Paese Vecchio, e come segno di riconoscenza verso i loro adorati santi, denominarono il nascente paese San Luca, e la nuova chiesa Santa Maria della Pietà.

Gli anni del trasferimento da Potamia a San Luca, non avrebbero potuto essere più infelici; erano gli anni della grande fame per la Calabria e la Locride. In questo periodo, nella diocesi di Gerace, cominciò a venir meno un tipo di alimentazione che, anche per le classi povere, faceva riferimento alla carne; ancora non si affacciavano all'orizzonte i nuovi alimenti come il pesce - stocco, il baccalà, il granturco, i quali sarebbero arrivati nel Seicento inoltrato.

Carestie, siccità, alluvioni: l'intreccio di queste calamità avrebbe messo in difficoltà comunità anche più solide di Potamia. Anche il mutamento del clima deve aver avuto un peso enorme nel peggioramento delle condizioni di vita nella cittadina sul Bonamico. L'ultimo decennio del XVI secolo, infatti, non solo per l'Aspromonte, ma per gran parte della Calabria Ultra, fu caratterizzato dall'aggravamento delle condizioni di vita per le popolazioni. I raccolti si fecero sempre più scarsi, in un contesto agricolo contraddistinto da una consequenzialità disordinata, in cui lunghi periodi di carestia seguivano ad un breve ciclo di prosperità.

Le scorrerie barbaresche, frequenti in molti paesi ionici, contribuirono anch'esse a respingere le popolazioni verso i luoghi che erano ritenuti più sicuri e meno esposti. Furono, però, maggiormente le alluvioni ed i conseguenti allagamenti delle campagne che comportarono i forzati ritardi o la distruzione delle seminagioni, ad esser sicuramente determinanti nel trasferimento delle popolazioni. In queste vallate, infatti, le alluvioni portavano in breve tempo sui terreni un accumulo di cose disparate: massi di granito che si staccavano dai monti, sassi che scendevano a valle, melma che si mescolava alla massa d'acqua. Questo ammasso di depositi, tracimando dall'argine del fiume, travolgeva qualsiasi cosa gli facesse ostacolo, ponti, baracche, abitazioni, strade, non in grado di opporre resistenza alla valanga d'acqua; inoltre contribuiva a lasciare sul terreno sedimenti che uccidevano alberi e colture.

Furono necessari diversi secoli affinché il paese cominciasse a ingranare, raggiungendo accettabili condizioni di vita, certo la natura ha continuato ad essere maligna nel corso degli anni, attanagliando più di una volta le già povere popolazioni aspromontane, a onor del vero anche l'uomo ci ha messo del suo raggiungendo una situazione di tralignamento generale, tra soprusi di ogni sorta e violazioni del viver civile.

Ma la Calabria e l'Aspromonte sono anche tanto altro, altra musica, altre sinfonie che i media non raccontano, perché è più facile raccontare il lato oscuro, quello che fa più comodo per attirare lettori e spettatori. E' tempo di fare luce su questo angolo di paradiso, fatto di paesaggi e di colori mozzafiato, il verde delle montagne, il blu intenso del mare, fatto del cuore grande di chi lo vive, fatto della nostalgia e dell'amore di chi è lontano e ne sogna ogni notte odori, profumi, sfumature.

Oggi, come secoli fa, il destino di noi calabresi o aspromontani in particolare è sempre lo stesso, fuggire verso mete "migliori" o con più ampie opportunità, con quella speranza sempre viva di poter trovare il nostro posto nel mondo, e con quel senso di precarietà che ci porteremo dietro come un fardello pesante sulle nostre stanche spalle, perché dovunque andremo avremo dentro l'odore dell'agave e del gelsomino e negli occhi l'azzurro luminoso dello Ionio, a ricordarci che anche lontani mille o più chilometri le nostre radici non le potremo mai recidere, ma saranno per sempre lì, ben piantate a terra in quelle "aspre" e adorate montagne.

©2021 I Love Italy News Arte e Cultura